Think small. Bill Bernbach, pubblicitario umanista

A un’America sempre più malata di gigantismo, lui propose di “pensare in piccolo”, agli americani che sognavano di diventare tutti dei numeri 1, lui suggerì che “essere numero 2 è meglio”.

William “Bill” Bernbach (1911-1982) è considerato il più influente pubblicitario del Ventesimo secolo. Bernbach non è stato soltanto il Mad Man che cambiò il linguaggio dell’advertising moderno, ma anche un intellettuale puro totalmente immerso nella cultura materiale. Nelle sue parole emerge una figura di uomo artigiano per il quale ‘fare è pensare’, così come scrive Richard Sennett, e pensare è unire alla maestria la consapevolezza morale del proprio posto nel mondo, del pieno senso delle proprie azioni.”
Giuseppe Mazza, introduzione a Bernbach. Pubblicitario umanista, Franco Angeli, 2014

“La notizia della nascita di una nuova agenzia di una decina di persone al numero 350 di Madison Avenue si guadagnò a malapena un trafiletto sulla stampa specializzata. Era il primo giugno del 1949. Giusto le foto dei tre fondatori, Ned Doyle, Maxwell Dane e William ‘Bill’ Bernbach – signori, la Ddb – cui si aggiungevano poche righe di commento. Avrebbero avuto vita facile? Bernbach non era abituato a strade in discesa. Ebreo, aveva sposato l’italoamericana Evelyn Carbone contro il parere dei genitori, i quali non glielo perdonarono per decenni. Nel mondo dell’adv […], era un outsider: ‘Mai dimenticare che Bill Bernach era un ebreo del Bronx, e che prima della sua comparsa in scena non c’erano mai stati né ebrei né bronxiani nelle agenzie di Madison Avenue’. C’era poi la congiuntura: ‘Quando decidemmo di aprire – raccontò anni dopo – la stampa di settore scrisse che non era un buon momento per fondare una nuova agenzia’. Altre erano nate soccombendo in breve, scornandosi in quella che lui stesso definì un’impegnativa ‘lotta impari con le gigantesche agenzie di allora’.

L’impresa nasceva insomma all’insegna di una tenacia che poi sarebbe stata sintetizzata in uno dei claim più decisivi di Ddb: ‘We try harder’ (1963). Noi ce la mettiamo tutta, proprio perché non siamo dei numeri uno, perché veniamo dal basso. Fu creata per un’azienda di noleggio auto (Avis, che tuttora si fregia di questo slogan) per sfidare i leader di mercato e offrire il massimo delle garanzie ai propri clienti, ma tanto più ebbe senso per un’agenzia i cui primi anni trascorsero nel tentativo di valorizzare budget certamente atipici e minori: il primo cliente, al quale Bernbach sarà grato per tutta la vita, fu Ohrbach, una piccola catena di magazzini presente in appena tre città. Seguì il pane da segale ebreo, la compagnia aerea israeliana El Al, e quando tra le bizzarrie fu il momento di un’automobile, si trattò della Volkswagen, l’auto di stato voluta a suo tempo da Hitler. Era il 1959. Non era certo un marchio qualunque, a pochi anni dalla seconda guerra mondiale. E per un’agenzia diretta da un ebreo, per di più. […] Eppure per quel maggiolino nacque la campagna ancora oggi considerata la misura aurea della pubblicità moderna, una sorta di Partenone dell’advertising. Il primo soggetto, l’annuncio ‘Think small’, in pieno boom economico invitò scandalosamente gli americani a pensare in piccolo, proponendo di abbandonare il gigantismo delle tipiche auto americane in favore dei consumi morigerati di un’auto solida, poco pretenziosa, magari da non cambiare in continuazione. ‘Think small’ generò intorno a sé da principio un perplesso scalpore e poi via via un’ammirazione crescente da allora mai più spentasi. […] Rispetto alla comunicazione di quegli anni, ‘colorfull’ e opulenta, quel layout deserto sembrò provenire da un mondo alieno: in bianco e nero, con una piccola auto in un angolo e un’austera headline di due-parole-due centrata in basso. Un altro vocabolario. Un’altra dimensione etica.
C’era di più. […] Il potenziale esplosivo dell’annuncio superava la pur sconvolgente veste estetica. Metteva in discussione nientemeno che l’atteggiamento americano verso la società dei consumi. Quell’attacco all’auto intesa come status symbol, ossia a una delle merci più simboliche di allora, era in fondo perfettamente coerente con lo spirito fondamentalmente anti-fordista che animava Bernbach. E ancora. Il linguaggio proposto stravolgeva anche il rapporto allora tipico tra marche e pubblico. Non più feticci ai quali aspirare. Qui irrompeva uno humor complice e gratificante, conciliato per di più con argomenti di grande concretezza, si direbbe di senso comune: il risparmio, la solidità del prodotto, l’oculatezza delle scelte. ‘Think small’ era insomma un ordigno concettuale, il germe – sotto forma creativa – di un tentativo di egemonia sull’industria dell’immagine.
Quegli annunci, infatti, non erano soltanto spiritosi e arguti. Suonavano anche come dei punti di vista sui generis, forme di partecipazione al dibattito pubblico. […] Fatto da lui sembrava facile, ma c’era da capovolgere ben altro che le abitudini del pubblico. Qui andavano all’aria intere generazioni di comportamenti professionali. In breve, si trattava di affermare le qualità dei prodotti nel rispetto non più degli assiomi del marketing ma di credibili ‘verità umane’, e in omaggio non alle mode del momento ma a quello che Bernbach stesso chiamava ‘l’uomo che non cambia’. Il vero argomento era cioè l’umanità del pubblico, con le sue eterne debolezze, i suoi sentimenti di sempre, le sue ambizioni, in breve: la sua autenticità.”
Giuseppe Mazza, op. cit.

Per Bernbach il pubblico non è da ammaestrare, ma da conquistare.
“L’elemento centrale del mercato non è il denaro, ma l’uomo. Ossia quanto di più incerto e imprevedibile ci sia al mondo. Lo disse con le sue opere, con il suo linguaggio, con l’organizzazione della sua agenzia e, infine, anche con i suoi testi. La sua presa di posizione suona, vista oggi, come uno dei tentativi più accaniti di opporsi a una guida tecnocratica della nostra epoca. Mise in discussione logiche e linguaggi del capitalismo con modi da riformista intransigente. Trasformò le sue convinzioni in gesti. In nuovi comportamenti.
[…] Auto nel fango, clienti imbronciati, contesti per nulla prestigiosi, un’azienda che afferma di essere la numero due, bottiglie ormai svuotate, inviti espliciti a pensare in piccolo… che réclame è mai questa? Come può l’autodenigrazione essere un valore di vendita?
Questo capovolgimento sistematico fu ribattezzato ‘negative approach’. Di sicuro la negazione dello stereotipo pubblicitario nelle campagne di Bernbach era una costante. Il suo era un gusto sottilmente perverso, di volta in volta capace di negare, sminuire, se non di mettere in ridicolo, la solidità di almeno due tradizioni. La prima è quella che vuole il linguaggio pubblicitario come elogio grottesco di tipo, appunto, propagandistico: qui invece c’era spazio solo per affermazioni relative, autoironiche, mai tronfie, sempre misurate. L’altra tradizione sotto attacco è la divinità del prodotto stesso, del quale vengono mostrati difetti o aspetti di solito considerati poco attraenti. La bottiglia di Chivas, per intenderci, era non solo vuota ma anche di tre quarti, con etichetta quasi illeggibile, mentre l’auto faceva capolino dietro due anziani contadini. Attraverso questi spiazzamenti delle attese, Bernbach non faceva altro che cercare una modalità plausibile, argomenti credibili, punti di contatto con l’intelligenza del pubblico. Se il suo metodo, allora considerato eccentrico e genericamente ‘creativo’, s’impone oggi come un’intuizione vivissima, è perché anticipa un rapporto più disincantato con gli oggetti di consumo, cui offriva uno sbocco linguistico ed espressivo.”
Giuseppe Mazza, op. cit.

“La creatività è forse una forma di espressione oscura ed esoterica? Non per noi. È semplicemente lo strumento più funzionale che un uomo d’affari possa utilizzare.
Cominciamo dal principio. Dovete sprofondarci dentro. Farne indigestione. Arrivare fino al suo nocciolo interno. E in ogni caso, se non siete stati capaci di condensare tutto quello che volete dire al pubblico in un unico proposito, in un unico tema, non potrete essere creativi. […] I veri creativi hanno addestrato la propria immaginazione. L’hanno disciplinata in modo che ogni pensiero, ogni idea, ogni parola che scrivono, ogni linea che tracciano, ogni luce e ombra nelle foto che scattano, in modo che tutto insomma sia finalizzato a rendere più vivido, più credibile, più convincente il tema o la virtù del prodotto che hanno deciso di comunicare. È chiaro che la finalità di vendita è importante. E che ogni cosa è fatta per stimolarla. Ma cosa c’è di così tanto rivoluzionario in questo atteggiamento? Non l’hanno certo inventato i pubblicitari. Ognuno, in qualunque campo – l’avvocato, lo scienziato, lo storico, lo scrittore… sì, anche il pittore e il poeta –, chiunque ha come ultima finalità la vendita della sua opera e cerca di convincerti ad acquistarla. I ‘giganti’ in ogni campo però sanno che una cosa è voler vendere, un’altra è riuscire a farlo. […] È proprio allora che la creatività è necessaria. È proprio qui che servono non una parola o un’immagine banale, ma l’intervento di creativi dotati d’immaginazione e originalità, in grado di prendere quello stesso concetto che è l’argomentazione di vendita e usare la magia del loro talento artistico per fare in modo che il pubblico lo veda e lo ricordi! Non farlo è uno spreco, oltre che un’inefficienza. […] Io invito tutti gli ambiti del business a dedicare lo stesso sforzo e riflessione che mettono negli aspetti organizzativi più tradizionali anche nello sviluppo dell’arte del comunicare con efficacia.
La responsabilità principale dei veri creativi non è solo quella di esercitare la propria libertà creativa, ma di saper distinguere un buon lavoro creativo dalle acrobazie puramente pretenziose. Il terribile incremento della pressione politica e sociale, la violenza con cui dobbiamo confrontarci di continuo, la spietata competizione tra i marchi, tutto questo fa sì che sempre di più sia necessario ideare con talento artistico le immagini e le parole per colpire e coinvolgere il pubblico. Ormai la gente è talmente esposta a una pioggia di banalità, ai tentativi presuntuosi e finti di catturarne l’attenzione, che guarda senza vedere, ascolta senza sentire e, cosa peggiore, senza provare nulla. Non c’è mai stata una sfida più grande per i talenti creativi. E per coloro che sapranno cogliere la sfida, e che grazie alla magia del loro talento riusciranno a far vedere, sentire, e far provare emozioni al pubblico, la ricompensa non sarà mai stata così grande. Perché voi siete come l’assicurazione che un marchio stipula su tutto ciò che vuole dire alla gente. Perché solo voi, lavorando in modo onesto e creativo, potete portare in vita quelle che sono solo fredde informazioni e renderle memorabili a tutti coloro che le vedranno. Solo voi potete provare al mondo che il buon gusto, la buona grafica e la buona scrittura fanno buona la pubblicità.”
Bill Bernbach, discorso al meeting dell’American Association of Advertising Agencies (1961)

“Secondo un vecchio adagio – non è mio ma lo sottoscrivo pienamente – si scrive meglio quando si ha qualcosa su cui scrivere. Se mi è concesso dare un consiglio, bisogna conoscere bene a fondo il prodotto prima di iniziare a lavorare. La tua bravura, la tua capacità di provocazione, d’immaginazione e d’inventiva devono scaturire dalla conoscenza del prodotto. A parer mio, la cosa peggiore che succede oggi è che si fanno molti giochi di prestigio con la grafica, e non è difficile per nessuno trovare delle idee. La cosa importante è riconoscere un’idea quando è buona. Bisogna avere inventiva, immaginazione, ma c’è anche bisogno di disciplina. Tutto ciò che viene scritto, tutto ciò che si trova nella pagina, ogni parola, ogni simbolo grafico, ogni segno, deve far sì che il messaggio da trasmettere venga rafforzato. Chi lavora in pubblicità senza ammettere che lo scopo finale è la vendita di un certo prodotto è un impostore. Inoltre, bisogna essere il più possibile semplici, rapidi e penetranti; e bisogna sempre partire dalla conoscenza del prodotto relazionando questa conoscenza con i bisogni dei consumatori.”
Bill Bernbach intervistato da Denis Higgins per Advertising Age, 1965

“Si è sempre detto, o pensato, che il contenuto, la cosa da dire, è più importante dell’esecuzione, del come viene detto. Ma è possibile tenerle separate? Perché bisogna scegliere? Una grande esecuzione diviene contenuto essa stessa. E porta il cosa dovete dire agli occhi e alle orecchie del vostro pubblico in maniera credibile e persuasiva. Per il bene delle vendite del vostro prodotto, non sottovalutate il come dite cosa volete dire. Shakespeare ha preso le trame delle sue opere dai libriccini di storia dell’epoca. Ma è come le ha rappresentate che le ha fatte assurgere all’eternità Scoprire cosa dire è l’inizio del processo di una campagna pubblicitaria. Come lo dite fa sì che la gente guardi e ascolti e se non avete successo in questo avete sprecato tutto il lavoro, l’intelligenza e l’abilità utilizzate nello scoprire cosa dovreste dire. Sì, ci sono limiti alla conoscenza, specialmente nel campo della comunicazione. Il fatto stesso che si tratta di conoscenza vuol dire che appartiene al passato. Lo conosciamo già, altrimenti non sarebbe conoscenza. E quando cerchiamo di attrarre l’attenzione delle persone, non c’è niente di meno efficace di quello che già conoscono. E niente di più efficace di qualcosa di nuovo, fresco ed eccitante, che non hanno mai visto prima. Niente è più efficace di una grande idea eseguita in modo memorabile. C’è un detto in aviazione che suona così: ‘Se sta volando è obsoleto’. Dovete continuare a lavorare costantemente su qualcosa di nuovo.”
Bill Bernbach, discorso al meeting dell’American Association of Advertising Agencies, 1961

“Il mondo è progredito fino al punto che l’opinione pubblica è la sua forza più potente. E credo che in questo nuovo, complicato, dinamico mondo non saranno più il bel libro o il poema epico di una volta a formare l’opinione pubblica, ma quelli che conoscono i mass media e le tecniche per rivolgersi alle masse. Il metabolismo del mondo è cambiato. Saranno nuovi veicoli a portargli le idee. Dobbiamo allearci con le grandi idee e portarle al grande pubblico. Dobbiamo migliorare le nostre capacità nell’interesse della società. Non dobbiamo solamente credere in quello che vendiamo. Dobbiamo vendere ciò in cui crediamo. E farlo con tutta l’energia.”
Bill Bernbach nell’introduzione a un libro che non fece in tempo a scrivere, 1982