Interferenze e omologazione del paesaggio urbano

Ogni paesaggio è il frutto dell’incontro tra uomo e natura, tra la cultura di una comunità e le fattezze fisiche di un territorio. L’osservazione di un paesaggio ci permette di comprendere l’evoluzione storica di questo rapporto non privo di tensioni e contrasti. Costituisce, allo stesso tempo, un prodotto complesso ed unitario: componenti naturali ed antropiche si congiungono dando vita ad un insieme organico, ricco di significati e di spessore storico. La varietà dei paesaggi presenti sul nostro pianeta è un bene di incalcolabile valore per i singoli e per le comunità. Ogni individuo, infatti, riscopre nel territorio le proprie radici, la propria identità in quanto il paesaggio, pur soggetto a continue trasformazioni, conserva le tracce delle organizzazioni passate.
Eppure i cambiamenti che si stanno verificando attualmente sono così radicali da costituire un rischio per questo legame tra luogo e comunità. La globalizzazione culturale, intesa come omologazione dei comportamenti, dei modelli di vita, dei consumi e la globalizzazione economica, che considera il mondo come un unico mercato a cui applicare strategie comuni, si riflettono inevitabilmente nelle forme concrete del paesaggio, semplificandolo e compromettendo irreversibilmente la leggibilità dei segni passati.
Il paesaggio diventa il riflesso di un “pensiero unico”, un pensiero che si rifà al modello forte, alla cultura dominante: originalità culturale e originalità organizzativa di un territorio, infatti, sono fattori inscindibilmente legati ed interdipendenti.

Dal dopoguerra ad oggi il paesaggio italiano ha subito innumerevoli trasformazioni che ne hanno profondamente alterato la struttura e le caratteristiche. Infrastrutture e industrie provocano un forte impatto sul paesaggio, ne modificano non solo la fisionomia ma anche la struttura sociale, l’economia, la qualità ambientale. Negli ultimi trenta anni ponti, viadotti, svincoli autostradali sono stati costruiti senza nessun accorgimento per i cromatismi del luogo, in forme tozze e strutture non rivestite da materiali locali. Lo stesso può dirsi per gli impianti industriali: la piccola e media industria che, secondo autorevoli economisti, rappresenta il punto di forza della nostra “economia di trasformazione”, si oggettivizza nei contesti territoriali attraverso la localizzazione diffusa di capannoni prefabbricati che hanno interrotto la continuità del paesaggio agricolo. Non disponendo inizialmente di ingenti risorse finanziarie, i piccoli imprenditori non investono sulla struttura in sé, vista solo come “ contenitore” per i macchinari del ciclo di produzione, degli uffici di marketing, dei depositi per l’azione di imballaggio e smistamento.
E’ sempre più difficile analizzare il paesaggio adottando come chiave di lettura i principi di razionalità, ordine ed univocità del rapporto tra segno e significato.La dimensione temporale del cambiamento tende sempre più a restringersi: dai tempi lunghi della natura e brevi della storia si è passati a quelli sempre più ristretti dell’economia.
La velocità delle trasformazioni, la varietà degli input provenienti sia dall’esterno che dall’interno rende difficile il processo di sedimentazione degli attuali valori e complessifica a tal punto il paesaggio da rendere necessarie nuove chiavi di lettura. La nostra società non manifesta spesso attenzione alla strutturazione armonica dello spazio, non riesce ad esprimere pienamente se stessa se non raramente, crea quasi sempre “non-luoghi” ossia sistemi omologati, privi di identità e specificità culturale, basati su modelli standardizzati e scadenti.

In passato un unico modello di edilizia abitativa veniva realizzato in molteplici varianti per adattare lo schema alle caratteristiche morfologiche dell’area in questione, all’espletamento delle attività agricole praticate nel territorio circostante, alle disponibilità economiche e alle esigenze della famiglia che ivi risiedeva. Per questo le dimore rurali o quelle inserite nei centri storici ci offrono ancora scorci e ambienti che costituiscono una testimonianza concreta delle funzioni svolte in passato dalla comunità locale. Il substrato fisico trovava una rispondenza nelle strutture elaborate dall’ingegno e dalla tecnica dell’uomo: le sedi umane, il sistema viario, le divisioni fra i terreni agricoli erano costruite con materiali locali e ricalcavano nell’assetto e nella localizzazione la geomorfologia di ciascun sistema territoriale. Oggi i condizionamenti, i limiti imposti dalla natura sono facilmente superabili attraverso una tecnologia in grado di plasmare ogni territorio indipendentemente dai caratteri e dalle vocazioni locali. Le infrastrutture, che indicano la direzione del movimento e dei flussi, spesso si oppongono alle “linee di forza” del territorio; l’utilizzo della chimica in agricoltura consente di impiantare colture non autoctone ma più redditizie e rispondenti maggiormente alle esigenze del mercato; le industrie possono trasformare prodotti provenienti da qualsiasi parte del mondo grazie alla velocizzazione dei trasporti; i materiali edili sono avulsi dal contesto locale. Tale noncuranza del substrato fisico può essere considerata come una delle cause più rilevanti dell’attuale disarmonia riscontrata nei paesaggi odierni; il paesaggio è essenzialmente frutto di una “relazione triangolare” tra cultura, comunità e territorio che si influenzano reciprocamente e dipendono strettamente l’una dall’altra, dando vita ad un geosistema ben strutturato ed unitario. I contesti urbani, ad esempio, perdono le loro peculiari caratteristiche ed assumono dovunque i connotati ripetitivi di periferie dall’edilizia uniforme.

La “città del futuro” diventa un luogo privo di significati e di riferimenti, estraneo ai suoi stessi abitanti: ai margini delle grandi realtà urbane del nostro secolo si può parlare di “individui senza luogo”, ossia privi di quello stretto legame che, nelle società tradizionali, legava l’individuo alla propria terra. Comprendere le trasformazioni del paesaggio, percepire i cambiamenti in modo critico è sicuramente un dovere per le nuove generazioni: soltanto così potranno essere evitati interventi che stravolgono i caratteri peculiari e le vocazioni di ciascun territorio. Per arginare questa tendenza all’uniformità è necessario valorizzare le diversità e considerarle come una ricchezza: nel “villaggio globale” c’è posto per ogni cultura. La globalizzazione è un processo che, coinvolgendo economia, cultura, politica e tecnologia, necessità di essere intelligentemente gestito per divenire un’opportunità.
Secondo L’ UNEP (Agenzia delle Nazioni Unite per il programma ambientale) “se la liberalizzazione dei mercati mondiali è la soluzione per lo sviluppo economico dei paesi ricchi e poveri, essa non deve avanzare a spese delle culture indigene e della biodiversità ad essa legata.”

Fotografie di Gabriele Basilico